Bussolenghesi illustri

Girolamo Giovanni Battista Barbieri

Girolamo Giovanni Battista Barbieri Girolamo Giovanni Battista Barbieri è nato a Bussolengo il 7 giugno 1839 da una famiglia abbiente e respira una cultura liberale, anche se non apertamente antiaustriaca.

 

La poca simpatia per il regime è dimostrata dal fatto che il padre, Giovanni Battista Barbieri, per evitare il servizio militare nell’esercito austriaco tenta, con alcuni sotterfugi, di farsi riformare...
Coscritto nel 1821, non si presenta alla Ratifica della lista di leva e alcuni suoi compagni lo accusano di fingersi malato.

 

Nonostante i tentativi fatti, Giovanni Battista Barbieri viene dichiarato abile.
Anche il figlio Girolamo, che studia veterinaria a Padova, palesa una certa avversione al regime austriaco e nella città patavina ha la possibilità di conoscere le idee rivoluzionari e le imprese di Garibaldi.

 

Secondo una “informativa” richiesta dalla polizia alla deputazione comunale il Girolamo a un certo punto risulta irreperibile… e forse si trova nella città di Milano.
Nel 1860 va a Genova, si arruola nelle file dei garibaldini e con il grado di capitano entra a far parte della spedizione dei Mille.

 

Girolamo Barbieri, per la sua partecipazione allo storico evento, riceve una pensione di 65 lire. Dopo l’unità d’Italia svolge la professione di veterinario a Bussolengo.
Muore il 23 settembre 1896.

Mons. Angelo Bacilieri

bacilieriDon Angelo Bacilieri è nato a Breonio il 27 settembre 1850. Diventato sacerdote, fu assegnato alla parrocchia di Bussolengo e nel 1874 viene nominato dal Consiglio Comunale insegnante delle classi terza e quarta elementari superiori.

 

Dopo due anni di prova il Consiglio Comunale gli conferma la nomina all’insegnamento con uno stipendio di 800 lire e nel 1889 gli concede la nomina a vita. Dopo la rinuncia del parroco don Luigi
Quintarelli, don Angelo Bacilieri viene chiamato nel 1892 a reggere la parrocchia di Bussolengo.
Il nuovo impegno pastorale lo costringe il 1° novembre del 1893 a dare le dimissioni da maestro elementare. Diventa nel 1898 presidente dell’ospedale e come parroco pro-tempore, secondo quanto voluto e stabilito dal fondatore dell’ospedale Francesco Orlandi, è investito della responsabilità dell’andamento del nosocomio.

 

Durante la sua presidenza l’ospedale viene fornito di acqua potabile proveniente dall’acquedotto e di energia elettrica.
Nel 1922, per difficoltà finanziarie, l’ospedale diventa intercomunale e Bacilieri, a malincuore, è costretto a dimettersi. La sensibilità verso i problemi educativi e sociali, soprattutto verso l’infanzia, lo spingono alla realizzazione di un asilo infantile. In località Piazzola, su terreno acquistato dal signor Salvatore Zorzi, costruisce nel 1914 un fabbricato per adibirlo ad asilo per l’infanzia.
La struttura, inaugurata con grandi festeggiamenti nel novembre del 1920, entra in funzione l’anno successivo.

 

 

L’asilo infantile, amministrato direttamente dal Bacilieri, viene donato nel 1926 al Comune e diventa per volontà del podestà Ettore Avesani, Asilo Infantile Monsignor Angelo Bacilieri in omaggio e segno di imperitura riconoscenza del munifico e Pio benefattore. Nel 1921 propone la costruzione di un cappella in zona cimiteriale in onore dei caduti della Grande Guerra. Bacilieri devolve al Comune la somma di 16 200 lire (l’intera somma necessaria alla costruzione) a patto che nel seminterrato della cappella venga ricavato uno spazio per la sepoltura dei sacerdoti della parrocchia.

 

Per dare un luogo di ricreazione ai giovani, ricava nella canonica delle aule dove viene insegnata anche la dottrina cristiana. Sia durante il Regno d’Italia che durante il periodo fascista, Bacilieri intrattiene con le autorità civili un rapporto di cordiale e fattiva collaborazione sostenendo e a volte promuovendo quelle attività che contribuiscono allo sviluppo del paese o alleviano i disagi e le difficoltà della popolazione.
Uomo di grande cultura e di ampi orizzonti, il Bacilieri trova il tempo per scrivere un libro su Bussolengo con premura e ispecialissimo amore. Si documenta sulla storia di Verona, sfoglia i registri anagrafici della parrocchia, ricerca notizie negli archivi del Comune e nelle biblioteche di Verona, legge i verbali delle visite pastorali e con pazienza annota una ricca serie di notizie che racchiude in un volumetto dal titolo Bussolengo appunti monografici.

 

Il libro, pubblicato nel settembre del 1903, viene dedicato al cardinale Bartolomeo Bacilieri, vescovo di Verona e fratello del parroco, in occasione della visita pastorale. Monsignor Angelo Bacilieri, dopo 57 anni di permanenza in parrocchia, muore il 30 gennaio 1933.

 

Senatore Luigi Montresor

montresorLuigi Montresor nasce a Bussolengo il 20 ottobre 1862. Frequenta con profitto, come alunno del Seminario di Verona, le scuole del Ginnasio e Liceo Vescovile.
Terminato il corso liceale, passa a studiare lettere all’Università di Pisa e alla Scuola Superiore di Magistero, perfezionandosi poi in archeologia all’Università di Roma dove si dedica con entusiasmo alla cattedra di lettere italiane e storia nell’Istituto Massimo d’Azeglio insegnandovi per più di trent’anni.

 

Cattolico osservante, venne chiamato a rappresentare in Parlamento il collegio di Bardolino rimasto vacante alla morte dell’on. Miniscalchi avvenuta nello scorcio del 1906. Il 13 gennaio del 1907 pronunciava a Pastrengo il discorso per la candidatura a deputato avendo come avversari l’on. Todeschini, socialista, e il prof. Carlo De Stefani, radicale.

 

L’intera nazione guardava allora a Verona e seguiva lo svolgimento della campagna elettorale. Bardolino e il prof.
Montresor dovevano dare il sintomo di una situazione nuova nell’indirizzo politico: il carattere deciso e aperto di lotta del cattolicesimo contro tutti gli avversari militanti nei vari partiti di allora.
Luigi Montresor iniziò così la sua lunga militanza politica che dopo due legislature al Parlamento, dal 1909 al 1919, lo portò al Senato dove sedette per più di venticinque anni.

 

Memorabile il banchetto che si tenne, in una sala dell’ex Convento dei Francescani, allora luogo di villeggiatura per i seminaristi di Verona, alla fine d’ottobre del 1920 per festeggiare la nomina a senatore.
Duecentoquindici sono gli invitati. Accanto al senatore e alla sua nobile signora Paradisi-Vigoni, c’è il prof. Moschetti, la contessa Erbisti, l’on. Guarienti, il sindaco di Bussolengo, cav. Avesani Ettore, il col. Beraudo, l’avv. Buffatti, il dott. Gaetano Smania, don Angelo Bacilieri, arciprete di Bussolengo, il cav. Danese, gli assessori Dal Fior, Pozzani, Barbieri, Castellani, Rudari e molti notabili e religiosi dei paesi vicini.

 

Apprezzato assertore della dignità e della libertà della scuola privata, fu presidente della Federazione Nazionale degli Istituti Scolastici, del consiglio d’amministrazione dell’Associazione Educatrice Italiana e preside della Scuola Magistrale Regina Victoriae di Roma, nonché presidente della Soc. Cattolica d’Assicurazione e della Banca Cattolica del Veneto. Quando l’età avanzata non gli permise più un’attività intensa, si abbandonò alle sue passioni: musica, letture di poeti e dei classici.

 

Provetto organista, si esibiva in casa per una ristretta cerchia d’amici, fra i quali poté annoverare, nel corso della sua vita lunga, operosa ma intrisa di modestia, Pio X e Margherita di Savoia. Il senatore Montresor muore in Fontechiari (FR) il 22 settembre 1948 all’età di 86 anni. Il 10 marzo 1962, il comune di Bussolengo con una solenne cerimonia ha onorato le spoglie mortali del suo esimio cittadino. Il corteo funebre diretto al cimitero comunale si è fermato a deporre una corona di fiori nella via a Lui dedicata.

 

Don Luigi Zocca "el prete da Sprea"

zoccaLuigi Zocca Pasquale nasce a Bussolengo il 25 marzo 1877 da Santo e da Checchini Celeste Alvisia.

 

Cresce nei vicoli sporchi e sulle strade acciottolate del paese come tutti i fanciulli del suo tempo e nei campi dei genitori contadini conosce le prime erbe che le antiche tradizioni popolari e le “praticone” del paese consigliavano alle persone colpite da dolori di petto, tossi, febbri, mali di pancia e acciacchi d’ogni specie. Entra in seminario al tempo in cui è Vescovo di Verona mons.
Bartolomeo Bacilieri e ne esce sacerdote ai primi del 1900. Subito è inviato in qualità di curato a Pazzon di Caprino dove rimane per tredici anni. Di lì è trasferito parroco a Ferrara di Monte Baldo fino al 1915.

 

 

Allo scoppio della prima guerra mondiale parte con l’incarico di cappellano militare e svolge la sua opera assistenziale dapprima a Bassano del Grappa, poi a Marostica e infine a San Massimo all’Adige. Terminato il conflitto trascorre qualche tempo a Cogollo di Tregnago quindi, per sua richiesta, nel Natale del 1918 è nominato parroco a Sprea, minuscolo paesino dell’alta val d’Illasi nel Comune di Badia Calavena.

 

Qui rimane per ben 33 anni fino a che, stanco per gli anni, chiede di poter ritirarsi in città, in una semplice abitazione di via San Felice Extra. La semplicità di vita di questo sacerdote sarebbe passata inosservata anche al più attento studioso di cose sacre se ad un certo punto la sua fama di prete guaritore non si fosse diffusa dagli sperduti paesetti della Lessinia alle valli vicentine, alla città e oltre i confini della provincia veronese.
Gente a piedi, ammalati col calesse, uomini e donne in bicicletta o a dorso di mulo incominciarono a percorrere le strade che portavano a Sprea in cerca del prete che guariva con le erbe. Terapie che erano frutto di una sapienza antica, di una fiducia sacrale nella natura, di una amorevole compassione verso i sofferenti e i poveri. Negli anni compresi tra la prima e la seconda guerra mondiale egli è ormai un “botanico” famoso, il più esperto erborista della provincia.

 

Dopo anni e anni di letture, di interminabili camminate sui prati e nei boschi della montagna veronese, di contatti e di confronti con erboristi e fitoterapeuti, ha maturato una conoscenza ineguagliabile delle erbe medicinali e una esperienza delle loro proprietà tali da consentirgli una indiscussa competenza. Molti guariscono da nefriti, da dolori gastrici e intestinali, da ulcere e dolori reumatici.
Qualcuno non trova giovamento ma la sua delusione non sovrasta l’eco delle guarigioni. Le erbe che egli consiglia purificano il sangue, gli impacchi fanno passare le flebiti, le sue parole infondono speranza, pazienza e serenità.

 

Egli non aveva nozioni di medicina e in realtà non tutti i suoi rimedi erano efficaci, anzi taluni erano pretenziosi come nel caso delle leucemie, dei carcinoma, delle meningiti, della poliomielite e di altre malattie che neppure la medicina attuale è in grado di guarire.

 

Egli operava però in condizioni di emergenza quando non esistevano possibilità alternative e in un mondo di poveri dove le uniche medicine a disposizione erano la crusca, la polenta, il latte, le cipolle, la farina di castagne, il burro, il miele, la cenere e gli altri elementari prodotti della natura e della vita contadina.
Nella sua ingenuità il “prete da Sprea” è stato un “grande” per il popolo delle montagne, un “samaritano” per innumerevoli sofferenti di tanti paesi della provincia, della città e delle città vicine. Il 28 novembre 1954, per i postumi di una banale caduta in chiesa, muore assistito premurosamente dall’affezionata nipote Ada.

 

Luigi Motta

mottaLuigi Motta nacque a Bussolengo in località Praiesol (ora Tesa Motta), il giorno 11 luglio 1881 da Filippo, piccolo proprietario terriero e da Giuseppa Annichini. Dei suoi primi anni ha lasciato scritto: «La mia fanciullezza fu eminentemente agreste. Amavo i campi e i lanosi greggi. A dieci anni ebbi il primo grande dolore. Fui strappato dalla vita agreste e condotto a Verona.

 

Frequentai il Ginnasio “Scipione Maffei” e poi il Seminario. A 18 anni s’iscrive all’Istituto Nautico di Genova per diventare capitano di lungo corso, senza riuscire a completare gli studi. A Genova porta anche il suo primo romanzo che aveva scritto tra i 16 e i 18 anni e che intitolò “I Flagellatori dell’Oceano Indiano”, presentandolo al concorso letterario indetto nel 1900 dall’editore Antonio Donath.
Il romanzo vinse il primo premio e fu pubblicato con una presentazione di Emilio Salgari al quale il libro era dedicato, ma non ricevette alcun compenso economico. Così per mantenersi a Genova, Luigi fece i più disparati mestieri, lavorando presso uno studio di avvocato, come garzone in una bottiglieria e come panettiere presso il fornaio Francesco Delle Piane, amante della musica e innamorato di Verona.
Abbandonata ogni prospettiva di carriera marinara, anche se amerà fregiarsi del titolo di “capitano” pur non avendolo mai conseguito, torna a Verona per dedicarsi completamente alla letteratura. Nel 1905 fonda un giornale di viaggi e avventure “Intorno al mondo” del quale non resta traccia e che chiude dopo alcuni numeri. Trasferitosi a Milano, inizia con successo l’attività di scrittore e dirige “Il Giornale di Viaggi e di Avventure di Terra e di Mare”. Nel 1906 assume la direzione dell’“Oceano”, giornale letterario di viaggi e avventure che si dedica alla pubblicazione di romanzi moderni e popolari.
Nello stesso anno sposa la bolognese Bianca Polzi. Nel 1907 cura per la Società Editoriale Milanese la Biblioteca Fantastica dei Giovani Italiani, sedici racconti brevi, tra il nero e il fantascientifico, dimostrando nuove aperture nel genere fantastico e proponendo al pubblico nuovi autori. Dal secondo decennio ebbe inizio una frenetica produzione letteraria che lo portò a pubblicare più di cento romanzi in Italia e all’estero per le case editrici Speriani, Treves, Cogliati, Celli, Bemporad, Quattrini, Vallardi, Sonzogno, Mondadori e Viglongo. Scrisse numerosi articoli e racconti per i periodici e le riviste più popolari del tempo, come il “Corriere dei Piccoli”, il “Novelliere Illustrato” e “La Domenica del Corriere”.

 

Si cimentò anche in un’intensa attività teatrale sia come autore sia come traduttore di testi stranieri e come impresario di commedie e operette. Durante la seconda guerra mondiale fu arrestato nella sua residenza di Bussolengo a Monte Marino (in località Ventretti), amena località con vista sul lago di Garda dove viveva in quegli anni. L’accusa era di aver dato ospitalità al capitano medico inglese Waw, fuggito da un campo di concentramento tedesco, fu per questo incarcerato nella fortezza di San Leonardo a Verona, poi nel carcere agli Scalzi e quindi trasferito a Padova, da lì a Venezia e infine nel carcere di San Vittore, dal quale uscì il giorno prima della liberazione.
Lo scrittore non dimentica il suo paese di origine anche se alla fine la nostalgia contrasta con lo stupore per le trasformazioni avvenute: “Bussolengo, la mia terra d’origine non è stata, no dimenticata. Il suo Adige sonoro, i valloncelli pittoreschi, le “strinture” romantiche che adducono a Pol, ove si trova la casa di mia madre, sono ricordi indelebili, pieni di dolce nostalgia. E su, in alto, sopra i colli del mio vecchio paese, dove in un angolo solitario, oltremodo pittoresco, trascorro alcuni mesi dell’anno, lontano dai rumori della metropoli lombarda, dalle sue follie e dai suoi perfidi e pur incantevoli inviti, mi estasio a contemplare la turrita città rosseggiante nel tramonto, che mille e mille lumi costellano quando scende la notte, e mi pare allora di inseguire le ombre del grande Scaligero e del padre Dante che fuggiasco, trovò nel magnifico Signore, un amico devoto.

 

Rivolgo poi lo sguardo verso Pastrengo: vedo la strada bianca che Goethe percorse recandosi da Malcesine a Verona, e mi par di scorgere sul nobile volto la sua entusiastica sorpresa quando di lassù, prima di scendere verso Bussolengo, vide la magica città, regina dell’Adige verde e sonoro, stendersi lontana a lui dinanzi, sulla piana ubertosa, sotto i colli divini”. Aveva tre passioni: i fiori, i bambini e le donne (ma solo quando meritano); amava la sua bella villa a Bussolengo, la campagna bonificata, gli alberi che vi aveva piantati e specialmente le sue rose, uniche al mondo e con… diritti d’autore esclusivi.

 

Emilio Salgari, nella prefazione all’edizione spagnola del romanzo “L’Oceano di fuoco”, lo definì parlatore eccellente, “causeur” spiritoso, esteta, amatore del buono e del bello. Aveva un carattere gioviale e democratico, “fin troppo” come diceva la moglie Amelia, che lo portò ad avere una vasta cerchia di amici ed estimatori, dai più umili e sconosciuti fino ai più famosi come i musicisti Puccini, Mascagni e Leoncavallo o i commediografi Simoni e Lopez, il giornalista e scrittore Fraccaroli, lo scrittore Verne e molti altri. I suoi romanzi sono l’espressione di una personalità originale e gli assicurarono un posto di rilievo nella storia della letteratura per la gioventù.

 

La sua frenetica attività non era rivolta solo ai romanzi: fin dal 1906 si era dedicato a lavori teatrali e a libretti d’opera. Lo scrittore manifestò la sua poliedricità anche nell’arte popolare del fumetto collaborando con il “Corriere dei Piccoli” ma soprattutto con “L’Avventuroso” e con “Topolino”, pubblicando sia racconti che storie a fumetti. L’allora proibizione fascista sulle importazioni USA costrinse gli editori a reperire nuovo materiale nelle storie esotiche di casa nostra da Salgari e da Motta. Di lui ha scritto l’amico e maestro Emilio Salgari: “L’opera di Luigi Motta si distingue fra le altre per vari motivi: il linguaggio si conforma ai luoghi dove si svolge il racconto, ai caratteri, all’ambiente; nell’intreccio si fondono il fantastico, il sentimentale ed il drammatico. C’è poi una forza descrittiva non comune, il dialogo è robustissimo, l’epilogo sempre grandioso, impressionante e originale. È indubbiamente il più strano, il più forte ed il più originale tra i giovani scrittori… La sua operosità è più unica che rara, la sua fantasia meravigliosa, poiché nessuna delle sue opere ha un punto di contatto con le altre”. Muore a Milano per un attacco di peritonite il 18 dicembre 1955.

 

Pietro Vassanelli

vassanelliPietro Vassanelli, nato a Bussolengo il 14 gennaio 1910, può senza dubbio essere definito l’artefice dello spettacolare sviluppo della calzatura industriale a Bussolengo. Il giovane Vassanelli dopo aver appreso il mestiere sul suo deschetto e nel calzaturificio Trevisani come semplice operaio, apre un primo laboratorio di giunteria e di tranceria al n. 141 di via Mazzini e un secondo, sempre di giunteria, in via Borghetto in un retro-negozio di mobili diretto dalla sorella Mery.
Nel 1958 i buoni affari pilotati magistralmente da uno straordinario “rappresentante”, Bruno Rizzi, consentono la costruzione di un ampio complesso in via Senatore L. Montresor nel quale vengono trasferiti personale di ufficio, operai e macchine. Inizia una produzione di calzature da donna in grande stile e la vendita del prodotto su tutti i mercati dell’Europa centrale, particolarmente in Germania, e su alcuni mercati dell’Africa.

 

Nella vigilia di Natale del 1960 le maestranze “brindano” per il raggiungimento delle 2000 paia di calzature al giorno. L’efficientissimo ritmo di produzione e le favorevoli condizioni del mercato consigliano l’ampliamento dell’azienda. In località Piazzilli del comune di Cavaion Veronese viene costruita una modernissima struttura che entra in produzione nel 1967 in parallelo con la prima sede di Bussolengo.
Il numero degli addetti aumenta gradatamente fino a raggiungere il numero di 800. Nello stesso tempo assume consistenza il già rodato sistema di distribuzione di parti di lavorazione a domicilio; un indotto che interessa quasi tremila addetti. La manodopera assunta è raccolta dai luoghi di abitazione con appositi pulmini in Valdadige, Valpolicella sino alle propaggini dei Lessini, in Lugana, a Villafranca e a Verona. Negli anni di massimo sviluppo il calzaturificio giunge a produrre fino a 33 500 paia di sandali al giorno con un fatturato medio annuo di 50 miliardi di lire.

 

La pubblicità, inserita sui più noti rotocalchi d’Italia, enfatizza: “Maria Pia calza il mondo”.
Il mercato viene esteso all’America ove, per un certo tempo, sembra profilarsi il progetto di una nuova fabbrica, ma senza seguito. Pietro Vassanelli intanto, con estrema riservatezza, svolge una proficua e generosa opera di solidarietà; assieme ad alcuni suoi amici e tramite fratel Coppini, religioso comboniano, finanzia la costruzione di tre chiese, di scuole e di pozzi artesiani in una missione dell’Uganda.
Invita e ospita a Bussolengo più volte il cardinale Nsubuga, arcivescovo di Kampala, e ogni volta lo gratifica generosamente per i poveri di quella terra. Il 26 giugno 1988, dopo essere stato insignito del titolo di cavaliere del lavoro e di altri numerosi riconoscimenti, muore lasciando ai figli il compito di proseguire nell’attività da lui iniziata.

 

Beni Montresor

montresorBeni nasce a Bussolengo il 31 marzo 1926 da Angelo Silvino, falegname molto stimato e apprezzato in paese, e da Maria Fantin. Il padre, come consuetudine, volle il primogenito nella piccola bottega artigiana per dare continuità all’impresa di famiglia. Alla fine, i suoi continui disastrosi esiti come aiuto falegname, convinsero papà Silvino, più per disperazione che per convinzione, a mandarlo a studiare.

 

In paese era stata aperta proprio in quegli anni una scuola d’agraria. Allevare mucche e spargere concimi non era proprio il suo sogno, ma almeno poteva studiare e alleviare in parte quella sete di sapere, di conoscere, di esplorare e di sperimentare che lo ha contraddistinto per tutta la vita. Accortosi fin d’allora che il paese gli andava stretto e che la famiglia non assecondava la sua naturale vocazione verso l’arte, si preparò ad abbandonare paese e famiglia.
La prima tappa fu Venezia, dove, senza dirlo a nessuno, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti, al corso di pittura. Affascinato dalle commedie che venivano trasmesse alla radio, Beni fu preso dal desiderio di cimentarsi in questo nuovo campo. La sua prima opera, trasmessa dalla RAI, s’intitolava “Angelina e le beate”.
In paese provocò uno scandalo, perché rappresentava uno spaccato della vita bigotta della Bussolengo di quegli anni e metteva a nudo fatti e mentalità che allora era sconveniente mettere in piazza. Quella fu anche l’occasione per approdare a Roma, dove scrisse altre commedie per la RAI, ma, soprattutto per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia ed entrare nel mondo del cinema.

 

Dapprima fu aiuto scenografo, in seguito scenografo di grandi registi come Rossellini, De Sica e Fellini. In sette anni d’intenso lavoro partecipò a ventinove pellicole, alcune delle quali, come “Poveri ma belli” e “Nella città l’inferno”, entrarono nella storia del neorealismo italiano. Ma la “curiositas”, quella brama di sapere che l’ha sempre contraddistinto, quella febbre di nuove esperienze, quel desiderio di conoscere nuovi mondi, lo spinse nel 1959 a lasciare anche Roma per l’America, dove pensava di restare soltanto qualche settimana.
Decise di restare, ma dovette ricominciare tutto da capo. A New York era uno sconosciuto e non parlava una parola d’inglese. Un’amica lo presentò al maestro Giancarlo Menotti, il mitico fondatore del Festival dei Due Mondi di Spoleto.

 

Menotti, visti i bozzetti che Beni gli aveva presentato, gli affidò la scenografia della sua nuova opera, Vanessa. Il successo ottenuto in quella prima occasione gli spalancò, come per incanto, le porte di tutti gli altri teatri, primo fra tutti, il Metropolitan di New York.
Quando la città di New York terminò la costruzione del nuovo gigantesco teatro dell’opera, il Lincoln Center, a Beni fu affidato l’allestimento dell’opera inaugurale “La Gioconda” di Ponchielli, con Renata Tebaldi e Franco Corelli protagonisti. Fu un successo strepitoso, le sue scene, i costumi sfolgoranti di oro e di colori che evocavano lo splendore di una Venezia magica, abbagliarono gli americani a tal punto che il “New York Times” recensì lo spettacolo, esaltando in particolare la fantasia di questo “new italian artist”.
Regista teatrale e cinematografico, scenografo e scrittore, Beni Montresor ha spaziato nei più vari campi, ottenendo dappertutto successi e consensi. Ha lavorato nei più prestigiosi teatri del mondo e con gli artisti più conosciuti. Dal 1960 ha vissuto a New York, città che gli ha allestito nel 1981 al Lincoln Center, una grande mostra antologica, “The Magic of Montresor”, che è anche il titolo di un volume pubblicato nel 1995 in Italia per le edizioni Novecento.

 

Verso la fine della sua vita amava tornare, appena poteva, a Bussolengo, dove sentiva che erano le sue radici e il legame con quella terra che aveva dovuto lasciare, ma che portava dentro di sé. «Qui, nella mia casa di Bussolengo» diceva «ritrovo una dimensione e provo delle sensazioni che mi è impossibile vivere quando sono in giro per il mondo. Questa è la mia oasi di pace, tra campi e vigneti, ma anche quando sono qui continuo a lavorare. Ho deciso che morirò sul palcoscenico come Molière». Al Teatro Romano di Verona nel 1998 ha presentato al Festival Shakespeariano il musical “Twelfth Night” con musiche di Rossini che gli ha fruttato il premio Basilica Palladiana e in Arena nel 1999 ha curato la messa in scena della “Vedova Allegra”. Tra gli innumerevoli riconoscimenti che gli sono stati attribuiti ci sono il premio del Ministero francese per la cultura per “Salomè” assegnato a Tolosa, il premio Massine per il contributo dato all’arte del balletto, quattro nomination per il Tony, il più prestigioso premio di Broadway. Sempre negli States, Montresor ha vinto il Caldencott Award, il più importante premio americano per la letteratura infantile con il volume “May I Bring a Friend” e la medaglia d’oro dell’Istituto Americano d’Arte.

 

L’amministrazione comunale di Bussolengo, gli ha conferito il riconoscimento Bussolengo Premia assegnato a chi ha dato lustro al paese. Presagendo, forse, l’avvicinarsi della morte deciso a «morire sul palcoscenico come Molière», negli ultimi due anni Beni si è calato in un’attività frenetica, realizzando la messa in scena di Otello per l’inaugurazione della stagione 1999 al Teatro Colon di Buenos Aires, di Sansone e Dalila al teatro Real di Madrid, della Vedova Allegra all’Arena di Verona, di Werther al Teatro Massimo di Palermo, di Faust al Teatro Carlo Felice di Genova, di Traviata a Jesi e di Tosca a Torre del Lago in occasione del centenario dell’opera pucciniana.
La sua commedia Villa Verdi è stata scelta per le celebrazioni verdiane di Genova. Inoltre, vista la fama raggiunta oltre oceano, ha inaugurato con Tosca il nuovo teatro dell’Opera del grande Centro De Las Artes Del Espectaculo Argentino. Per Beni è stato un trionfo con venti minuti di applausi e cascate di petali di rosa sul palcoscenico.

 

Con estrema naturalezza Beni passava dalle ovazioni dei più grandi teatri agli applausi di una piccola folla nella piazza del suo paese. “Uno dei più profondi incantatori di palcoscenico” ha scritto di lui The London Times, “poeta visionario” lo ha definito Le Monde, mentre il New York Times ricorda i suoi spettacoli come “una magia che lascia senza respiro”. Ma sono forse le parole di Beni stesso a dare di lui il ritratto più fedele: «Devo stupire e meravigliare me stesso. Se succede, penso che lo sarà anche lo spettatore…
Il mio vero mestiere è divertirmi e io mi diverto a fare tutto. Quando sono davanti a un palcoscenico vuoto e so che lo posso riempire di luci, costumi, scene, mi emoziono come quando ero bambino. In fondo io continuo a coltivare il bambino che è in me». La malattia e la morte lo colse l’undici ottobre del 2001.